domenica 6 settembre 2015

Recensione #69: Villette

Ultimo lusso dell’estate

Premessa doverosa e forse vagamente eretica. Non sono un’appassionata di romanzi ottocenteschi inglesi. Ho letto Orgoglio e Pregiudizio, l’ho anche apprezzato, ma non sono tra quelli che lo considerano il libro della vita. Tanto più che ultimamente faccio abbastanza fatica a leggere qualsiasi cosa non sia stata scritta negli ultimi dieci anni… colpa della mia vita troppo frenetica, o dell’ansia di perdermi qualche geniale novità, non saprei.
Quest’estate però, complice la nullafacenza delle giornate agostane al lago, mi sono ritrovata ad aver voglia qualcosa di più riflessivo dei soliti romanzi contemporanei inarrestabili, coi loro salti temporali e i loro colpi di scena. E prima ancora che il desiderio prendesse una forma esplicita, mia cugina Laura – indimenticabile compagna di giovanili letture estive – mi ha messo in mano Villette di Charlotte Brontë. Un libro che non avrei mai scelto da sola, ma che si è rivelato esattamente quello di cui avevo voglia e bisogno prima di tornare ai ritmi incalzanti della vita milanese. 
Ultima nota prima di venire al punto: se, come me, leggete l’edizione di Fazi del 2013, non fatevi ingannare (né spaventare) dal risvolto di copertina: presenta l’opera come una specie di romanzo rosa, con un’eroina divisa tra due pretendenti… niente di più lontano dalla verità! La storia d’amore c’è, ma sicuramente non è così banale. 

Villette è il racconto amaro e profondo di una vita piegata dalla sofferenza. Lucy Snowe, protagonista e narratrice dell’opera, è una giovane inglese senza bellezza e senza fortuna: ritrovatasi sola al mondo per una serie di disgraziati quanto rapidi eventi, parte alla volta del continente in cerca di un impiego onesto con cui mantenersi. Si sistema dunque a Villette, cittadina immaginaria che la Brontë plasma sul modello di Bruxelles, dove trova lavoro come istitutrice. 
Il romanzo racconta la vita di Lucy a Villette: i suoi tentativi di ricominciare da capo in un paese straniero, il suo impegno, le sue fatiche, i suoi timidi successi e le sue segrete, inconfessate, delusioni. Le sue giornate sono costellate di tutte quelle rassicuranti piccole incombenze che ci si aspetta da un romanzo inglese dell’Ottocento. Gli snodi della trama, agli occhi del lettore contemporaneo, risultano convenzionali, quasi sempre prevedibili. Ma c’è dell’altro. A fare da contraltare alla prevedibilità della vicenda, intervengono la finissima capacità di osservazione, lo spirito critico e pungente, e la perfetta verosimiglianza della figura di Lucy. 

La protagonista ci appare come una creatura ferita, pressoché incapace di affermare la propria volontà e i propri desideri di fronte a chiunque. Eppure, allo stesso tempo, potremmo definirla una figura stoica, dotata di forza d’animo immensa, che le permette di fronteggiare senza un gemito, in completa solitudine, i dolori e gli abbandoni continui a cui la sorte pare averla destinata. Queste tensioni tra sofferenza e capacità di sopportazione, tra estrema indipendenza di pensiero e impotente remissività di fronte agli altri, sono almeno in parte rappresentazione del contrasto - fondamentale nell’economia dell’opera - tra la fede cattolica e quella protestante. Unica e incompresa campionessa di quest’ultima confessione è la stessa narratrice: se da un lato infatti la sua fede le proibisce di abbandonarsi alla consolazione della Grazia, dall’altro le dà la forza di riportare continuamente la propria sorte a un orizzonte più ampio. 

Insomma, a rendere perfetto il personaggio di Lucy – e in un’ultima analisi a dare respiro all’intero romanzo – è la sua maestosa statura etica e morale. Dimensione, questa, che la protagonista prende almeno in parte in prestito dalla sua creatrice. Charlotte Brontë scrisse infatti quest’opera (l’ultima) con lentezza, nella fatica del lutto: negli otto mesi precedenti alla stesura, aveva perso un fratello e due sorelle. È quindi la stessa autrice a vivere l’intreccio tra lotta e rassegnazione, tra debolezza e coraggio, che costituisce l’ossatura del romanzo. Ed è infine nella scrittura – per Charlotte come per Lucy – che risiede l’unica possibilità di distacco dal dolore. 
Il racconto si mantiene infatti sempre sulle tinte contenute del romanzo, senza degenerare mai nella tragedia. Anche nello splendido epilogo, l’improvviso innalzamento poetico viene immediatamente ricondotto nel solco dell’ordinaria quotidianità dei personaggi. Come dire che l’unico modo di sopravvivere al dolore è concentrarsi sulle piccole cose di tutti i giorni, rassegnarsi alla routine, e, come i veri eroi tragici, accettare il proprio destino.

2 commenti:

  1. Grazie Giulia per la bellissima recensione di questo romanzo.
    "Maestosa statura etica e morale" della protagonista: perfetto.
    E anche "splendido epilogo": mi consolo, visto che sono andata avanti fino alle due di notte per finirlo, senza riuscire a staccarmi...

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    1. Grazie a te del consiglio! é stata proprio una piacevole scoperta :)

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