sabato 1 agosto 2015

Recensione #65: Storia di un corpo

Diario di un corpo

Non sono sicura che Storia di un corpo sia un libro da consigliare per l’estate. Senz’altro è una lettura piacevole (del resto con Pennac non poteva essere altrimenti), ma a tratti può rivelarsi anche faticosa. Sicuramente è un libro da leggere in fretta, per non perdere il filo. Si tratta in effetti di un vero e proprio diario, e, in quanto tale, per il lettore tenere il ritmo non è sempre facile. Penso che se a qualcuno capitasse di leggere il mio, per esempio, lo troverebbe incoerente e mal costruito… a periodi di delirio grafomane, con pagine e pagine su un singolo evento, seguono interi anni di pressoché totale silenzio. Ma in fondo, di solito uno non tiene un diario per farlo leggere. Che poi a volte capiti, è un’altra storia. 
In questo caso, per esempio, Daniel Pennac si è trovato tra le mani - e successivamente ha deciso di pubblicare - una pila di quaderni che il padre della sua amica Lison le ha lasciato in eredità dopo la sua morte avvenuta nel 2010. 

Avvertenza: l'opera non ha niente a che vedere con il classico diario intimo: i sentimenti, la vita professionale, le opinioni, le conferenze e le “battaglie” sociali di quest’uomo “taciturno, ironico, dritto come un fuso, accompagnato da una reputazione internazionale di vecchio saggio di cui non si curava minimamente” entrano solo raramente nelle pagine. Si tratta piuttosto di un diario fisico. Il diario di un corpo, iniziato a dodici anni per vincere l’incontrollabile paura dello specchio. Il giovane narratore, infatti, ha vissuto l’infanzia all’ombra di un padre reduce sconvolto dalla prima guerra mondiale; un uomo inconsistente, ormai ridotto a fantasma, a cui il bambino ha cercato disperatamente di assomigliare, fino a diventare un ragazzino “trasparente”, preda delle prepotenze dei coetanei. Ebbene, giunto alle soglie dell’adolescenza, il protagonista decide di plasmare il proprio corpo, di prenderne possesso e diventarne padrone. Strumento deputato a questa operazione è, oltre al costante esercizio fisico, la parola scritta. La pagina su cui fissare il pensiero diventa quindi il ponte tra una mente e un corpo apparentemente lontanissimi. 
È sorprendente l’acutezza con cui il ragazzino prende coscienza e trova rimedio a questo scollamento, trasformandosi ben presto in un giovane sano e forte, protagonista di una vita densa e avventurosa. 
Superati però i rivolgimenti e le conquiste dell’adolescenza, la narrazione si fa però più faticosa: l’età adulta non ha lo stesso respiro filosofico della gioventù, e spesso le pagine si riducono alla cronistoria di grandi e piccoli acciacchi. Un ulteriore scarto si ha infine nella parte dedicata alla vecchiaia: il decadimento fisico viene trattato con delicatezza, senza piagnistei. Come un progressivo spegnimento, che trasmette al lettore la serenità del destino compiuto. 

In generale, comunque, trovo che, ben più della parabola del fisico e degli affetti del protagonista, siano degne di nota le riflessioni di carattere generale: il corpo presentato come “compagno di viaggio”, vera e propria “macchina per essere”. “Giardino segreto” coltivato insospettabilmente nei ritagli di una vita pubblica e privata ricchissima. Perché tutta questa attenzione alla segretezza, alla privatezza della sfera fisica? In primo luogo senz’altro per una questione generazionale: il protagonista, nato nel 1923, si descrive come un “borghese della sua epoca, i quelli che usano ancora il punto e virgola e non si presentano mai al tavolo della prima colazione in pigiama, ma freschi di doccia, ben rasati, nel loro impeccabile abito da giorno”. Inevitabile quindi il riserbo, l’istinto di preservare in una dimensione pudicamente privata la fisicità, sentita probabilmente come qualcosa di cui vergognarsi. 
Eppure – e questo è forse l’aspetto che rende attuale la Storia di un corpo – nonostante la sua continua sovraesposizione, “sui rapporti che la mente stabilisce con esso [il corpo] in quanto scatola delle sorprese e distributore di deiezioni, oggi il silenzio è altrettanto fitto che ai miei tempi”. Anche oggi, dunque, schiavi ancora e nonostante tutto del dualismo di Cartesio, fatichiamo a concepire la nostra mente e il nostro corpo come una cosa sola. E forse è proprio per questo che il tentativo dell’autore del diario di ricomporre le due dimensioni ci risulta così riconoscibile, e in definitiva, simpatico.

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