domenica 10 maggio 2015

Recensione #57: Dentro


La vita da Dentro


Approfitto di questa domenica di sole e pace per provare a recuperare le buone abitudini, e scrivere due parole su Dentro, l’incensatissima e pluripremiata opera d’esordio di Sandro Bonvissuto. 


Tre racconti non autobiografici che ripercorrono a ritroso l’esistenza di un unico io narrante: si comincia con l’esperienza del carcere di Il giardino delle arance amare; si continua con la storia di un’esclusiva amicizia adolescenziale, tra le storture del sistema scolastico di Il mio compagno di banco; e si conclude con le drammatiche scoperte infantili di Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta.

Innanzitutto una precisazione sul titolo: “Dentro” non è - come credevo - un richiamo alla prigione di cui si parla nel primo e più celebrato racconto; piuttosto, direi che è un riferimento a una dimensione di appartenenza: in tutti e tre i racconti, infatti, il protagonista-narratore si trova, per motivi sempre diversi, a far parte di un gruppo sociale, un sottoinsieme di persone in qualche modo ai margini del sistema. In Il giardino delle arance amare il microcosmo in questione è quello della cella, con le sue regole, le sue frustrazioni e le sue amicizie forzate. In Il mio compagno di banco, è la realtà della “diarchia”, la relazione di completa simbiosi del protagonista con l’amico, che porta i due a schierarsi compatti contro genitori e istituzioni. Nel terzo racconto, infine, il gruppo di cui l’io narrante vuole far parte è quello dei “bambini che sanno andare in bicicletta”, ben distinto da quello dei bambini piccoli, che ancora non sanno andarci, ma anche fieramente opposto al mondo degli adulti.
Tutta l’opera si costruisce quindi sull’opposizione tra un mondo “fuori” (i liberi/i compagni di classe/gli altri bambini e i grandi) e la realtà “dentro” cui l’io narrante si colloca – paradossalmente – con sempre maggiore consapevolezza. Perché, se in carcere le relazioni con i compagni di cella sono una questione di sopravvivenza, per il giovanissimo protagonista del terzo racconto il riconoscimento del bisogno e la conseguente scelta di imparare ad andare in bicicletta sono presentati con piena consapevolezza, come il passaggio volontario da uno stadio evolutivo a quello successivo. 


“Dentro non è un libro autobiografico. Non parla della mia vita, ma della vita” è l’ambiziosa epigrafe che troviamo sul sito dell’autore. 
Immagino che in effetti l’intento di Bonvissuto fosse proprio quello di dire qualcosa sulla condizione umana, sempre in bilico tra un mondo sentito come “altro” e una realtà più piccola, costruita e conquistata con fatica, in cui l’uomo costruisce ripari temporanei.
L’impressione però è che la volontà di dimostrare questo assunto vada un po’ a scapito della naturalezza del racconto. Prova ne siano le continue sentenze che punteggiano la narrazione e che diventano davvero insistenti in Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta (“da vicino tutto è solo quello che è, e cioè la somma di quello che vediamo[…].”; “perché è solo il vento a cambiare le cose, sennò queste, da sole, non cambiano mai […]; “forse perché tutto quello che appartiene al passato sta a un livello più basso rispetto alla superficie, si trova nelle buche […]”; etc.).

Insomma, l’autore è senz’altro in grado di descrivere con lucidità temi e momenti delicati, di costruire immagini potenti ed efficaci ("il muro è il più spaventoso strumento di violenza esistente. Non si è mai evoluto, perché è nato già perfetto"). Tuttavia, al di là delle frasi a effetto, si respira tra le pagine l’urgenza di dimostrare una tesi, che penalizza la piacevolezza e la credibilità della narrazione. Peccato.

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