domenica 29 giugno 2014

Recensione #55: I Buoni

L’inferno dei Buoni

Ieri pomeriggio, in treno, ho letto I buoni di Luca Rastello.
È un libro che si legge in un giorno, non tanto perché è breve, ma perché te lo vuoi togliere di torno, come una spina nel fianco.
Più che scomodo – come forse vorrebbe essere – lo definirei un romanzo fastidioso, per ragioni  in modi anche molto diversi.

Fastidioso l’avvio, nelle fogne di una città dell’est, innominata e innominabile, riconoscibile ma anche esemplare. Il dolore pungente del degrado annidato oltre i nostri confini, il degrado che non vorresti sapere, ti mette a disagio.
Fastidioso lo sviluppo. In Italia, nella città occidentale, “in quella terra fertile, ricca, efficiente, di suburbi verniciati salmone, inferriate, telecamere e avvisi sui cani feroci”, si consuma una storia che smaschera quelli che si credono “i Buoni”, le sette asfittiche e del no profit aziendalista. Rastello tratteggia in modo superbo le sfumature del Male, insidiato nelle pieghe dell’inferno dei Buoni, ponendo l’accento – particolare dolorosamente vero - sul linguaggio che questi organismi adottano. Le formule ricorrenti, le sigle, gli slogan e le trappole; tutti strumenti per dar vita a “la quintessenza dell’esclusività, travestita da inclusione. Il bene assoluto che si erge contro il male assoluto”.
Infine, fastidioso lo sbracamento finale. Negli eccessi che – anche se niente affatto incredibili – forse era meglio lasciar sottintesi. Ma soprattutto nella degenerazione della trama, che, nel momento in cui perde aderenza alla realtà, vanifica almeno in parte il risultato finale, perché concede una tregua al lettore.

Al termine della lettura, frastornata dalle emozioni che I Buoni mi ha scatenato, ho cercato conforto e confronto nella tempesta di informazioni della Rete. E qui mi sono accorta di essermi persa un pezzo. Presa com’ero nelle mie indignate riflessioni, non ho colto i riferimenti al Gruppo Abele (per cui effettivamente Rastello ha lavorato) e a Don Ciotti, che farebbe capolino dietro la figura di Don Silvano.
Dico farebbe, perché è facile immaginare la polemica che si è scatenata quando lettori più attenti di me hanno sollevato il velo della metafora e creduto di riconoscere nel romanzo una trasparente accusa a una realtà specifica.
L’autore a questo punto si è premurato di ricordare al mondo la dichiarazione che prudentemente aveva inserito all’inizio della sua opera: “Nomi propri, toponimi e riferimenti storici sono frutto della fantasia dell’autore. Pertanto, è corretto considerare queste vicende come immaginarie”. Pur di liberarsi dell’accusa di aver scritto un romanzo contro Don Ciotti, è arrivato a sbandierare un non del tutto credibile “Don Silvano c’est moi”.
Dopo aver letto diversi autorevoli articoli, ho deciso che la questione mi pare irrilevante.

Se probabilmente è vero che l’opera prende avvio da una realtà nota e presente e – ipotizzo – dolorosa per l’autore, è vero anche che, a una come me, che non ha pensato a cercare dirette rispondenze con le cosiddette “storie vere”, I Buoni ha parlato in modo onesto. È proprio quando un testo riesce a staccarsi dalla stretta contingenza della cronaca e della memoria, per dire una parola vera sull’uomo, che l’operazione del romanzo può dirsi riuscita. Tutto il resto quindi, come sempre, è solo polemica.  

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