domenica 12 agosto 2012

Recensione #18: Nei mari estremi


Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra
Salmo 138

«Per me scrivere è stato sempre cogliere, dal tessuto fitto e complesso della vita qualche immagine, dal rumore del mondo qualche nota, e circondarle di silenzio».
Ho letto Nei mari estremi in una condizione ideale. Le parole di Lalla Romano sono cadute nel silenzio di un luogo amato, e nel silenzio è stato bello lasciarle risuonare.
Sono parole esatte; lievi, e pesantissime insieme. Parole che, prima di raccontare fatti, raccontano un’urgenza. L’urgenza, per l'autrice, di sopravvivere alla perdita del consorte. «Sentivo come se fossi io a dover scomparire, come se l’altra scomparsa non fosse già avvenuta».
Nascosta tra troppe spiegazioni (nell’edizione Einaudi del 2000, conto: una premessa, una presentazione, due note al testo e una postfazione), la Romano dispiega la struggente storia dell’amore della sua vita. O forse dovrei dire della morte dell’amore della sua vita. Amore e morte sono infatti, a detta sua e dei suoi commentatori, i due grandi temi che sostengono la narrazione.

L’opera è divisa in tre parti, proposte al lettore in ordine inverso rispetto a quello di composizione. Le prime due compongono Nei mari estremi, e l’ultima è una sorta di appendice, aggiunta all’edizione Einaudi del ’96. In primo luogo si incontra Quattro anni, in cui la scrittrice racconta la conoscenza, il fidanzamento e il matrimonio con Innocenzo. Subito dopo, c’è Quattro mesi, che descrive la malattia e la morte di lui. In chiusura sono posti i Minima mortalia, periodi brevissimi che la Romano compose prima ancora di venire a conoscenza della malattia del marito; istantanee che, secondo l’autrice stessa, hanno il sapore di premonizioni, e che anticipano, ricalcano, con fulminante incisività i temi che verrano sviluppati in Nei mari estremi. Frammenti, riflessioni, episodi romantici o impietosi, che restituiscono efficacemente l’impressione di un amore autentico.

Chi ne esce piuttosto male, a dir la verità, è proprio la figura della Romano. Il suo smarrimento di sopravvissuta è tangibile, e credibile. Onestamente fa anche simpatia. Solo che, nel desiderio di rendere un’immagine luminosa del marito, o forse soltanto di essere sincera con se stessa, finisce col ritrarsi come una donna capricciosa e fin troppo conscia del proprio talento. Una donna talmente concentrata su se stessa da aver bisogno di rielaborare il lutto con un libro, in cui, di fatto, mentre racconta Innocenzo, analizza le proprie debolezze, e le proprie meschinità.
Una donna vanitosa e fragile, che però ha trovato nella relazione con questo marito solido ed elegante (mia nonna avrebbe detto: un signore), al di là delle fatiche e delle incomprensioni, la certezza su cui costruire una vita.
Forse allora non importa che lei mi sia istintivamente antipatica; e non importano le meschinità, le bassezze della quotidianità di questa coppia. Forse importa solo che, qualche settimana dopo aver finito di leggere, mi rimanga l’impressione di una storia d’amore vera. Una storia per niente libresca, e forse in questo senso poco affascinante, ma, superate le fantasie tardoadolescenziali che affliggono la mia generazione, e superata ovviamente la durezza dei temi, una storia che direi desiderabile. 

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