mercoledì 2 maggio 2012

Recensione #9: Quando ci batteva forte il cuore


La testimonianza di un bambino grande


Confesso che covo questa recensione da più di una settimana. Avrei voluto scrivere a caldo, ma non ero sicura delle mie impressioni, e così ho lasciato scorrere i giorni (e poi la vita balneare degli ultimi giorni non mi ha aiutato a vincere la pigrizia). Ora però è tempo di affrontare questo scoglio (anche perché sto per finire un altro libro, e non vorrei mai accumulare degli arretrati…).

Quando ci batteva forte il cuore è un libro impegnativo e coinvolgente, ed ha sicuramente dei grossi meriti.

Per prima cosa – come dichiara il narratore stesso nella conclusione del romanzo – rende testimonianza di un episodio tragico e troppo spesso dimenticato della storia italiana: quello del sofferto passaggio dell’Istria alla Jugoslavia, con tutte le atrocità connesse (in particolare, i massacri delle foibe).

È la storia di un popolo abbandonato dalla sua nazione e costretto ad arrendersi alla dittatura comunista. Ma è anche la storia di una famiglia (una mamma battagliera, un padre tenero e disilluso, e un figlio coinvolto troppo presto nel male del mondo) travolta e spezzata dalla storia. È il racconto di una separazione, di una fuga, di un viaggio della speranza. Di un legame invincibile come quello tra padre e figlio, temprato da mille prove e difficoltà. Un legame che sopravvive a tutto e a tutto dà la forza di sopravvivere.
Insomma, senza dubbio è un libro appassionante, che si legge tutto d’un fiato, sul tram, in vacanza, nelle pause di un lavoro casalingo.

Eppure, se devo dire la verità, non mi ha convinto del tutto.

Leggiucchiando qualche recensione online, ho trovato diversi elogi dello stile dell'autore: semplice, schietto, quasi giornalistico. Tutto vero. Tuttavia, se quello di non abbandonarsi alla retorica è sicuramente un grosso pregio, devo dire che c’è qualcosa nel modo di scrivere di Zecchi che frena il mio entusiasmo. Il suo stile piano non ha catturato pienamente la mia attenzione; al contrario, troppo spesso ha permesso ai miei occhi di scivolare sulla pagina… Certo, di fronte a episodi di questa gravità, i fatti non devono essere offuscati da uno stile ridondante; qui però ho avuto quasi l’impressione che gli eventi non trovassero la giusta rilevanza; un po' come se venissero presentati in sordina.

E poi c’è un altro punto debole, una specie di conflitto tra voce narrante e punto di vista.
Provo a spiegarmi: al tempo della storia, Sergio ha circa sei anni; una volta diventato adulto, decide che vuole dare testimonianza al dramma di Pola, e racconta la sua versione dei fatti. La pretesa, quindi, sembra quella di presentare gli eventi dal punto di vista del bambino di allora (prove ne siano l'uso della prima persona singolare e le analisi degli stati d'animo del protagonista). Il problema è che, raccontando, il narratore ha la capacità di analisi e introspezione di un adulto.
Insomma, è come se l’urgenza dell’autore di portare una testimonianza approfondita degli eventi gli impedisse di costruire un narratore pienamente credibile. Forse tutto poteva funzionare benissimo anche senza la pretesa di usare il punto di vista di un bambino… Così, invece, la sensazione è che il piccolo Sergio, che capisce benissimo sia i suoi sentimenti e le azioni di mamma e papà, sia un po’ poco realistico. Ed è un peccato. 

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