lunedì 16 aprile 2012

Recensione # 8: Accabadora


Indagine di e su Michela Murgia, parte II

Scrivo la mia recensione su Accabadora  un giorno dopo aver finito di leggerlo, ma non so se ho fatto bene a lasciar passare questo tempo. L’ho divorato, e mi sembrava di aver bisogno di far decantare i pensieri, ma forse in queste poche ore mi sono già persa qualcosa.

La prima cosa da dire è che il libraio aveva ragione. Questo libro è davvero bello. Da tanto tempo non mi capitava di essere completamente avvinta dalla macchina narrativa un romanzo.

Ma andiamo con ordine.
Innanzitutto, la definizione: Accabadora è senza dubbio un romanzo. E, per una volta, è un romanzo che non sa di riciclato. Se per esempio lo confronto con l'Ombra del vento, di cui tanto mi sono lamentata, il fenomeno è più che evidente: dove lì c’erano una serie di ingombranti espedienti ottocenteschi (basti pensare che si tratta di un romanzo di formazione) adattati a una trama che aspirava alla modernità, qui, i meccanismi tradizionali sono ridotti al minimo. E benché, a ben guardare, anche in questo caso si parli  di amore, morte, mistero e crescita, ad emergere, con evidenza fortissima, rimangono solo una storia davvero appassionante di solitudini e compassioni, e l’atmosfera senza tempo di un mondo lontanissimo.

In effetti, Accabadora parla di questo: dei misteri affascinanti dei villaggi rurali della Sardegna, della realtà ostinata e superstiziosa di una terra quasi scomparsa e quasi sconosciuta. L’autrice è originaria di questi luoghi, e li racconta apparentemente senza filtri: utilizzando le parole, i detti, le sonorità della sua gente; restituendo al lettore una concezione della vita che respira con la terra, e che risponde ad una logica antichissima.

Se mi avessero raccontato la trama, probabilmente avrei creduto si trattasse della storia di un villaggio asfittico, che si nutre di ottuse superstizioni, deprecabili avanzi di una realtà dura a morire. Eppure, non è questo che ho pensato leggendo.
Al contrario, l’operazione della Murgia è straordinaria proprio perché rende credibile un sistema di pensiero distante anni luce dal nostro.
Come ci riesce? Operando dal di dentro. Se la voce narrante, infatti, è esterna alla storia, il punto di vista le è assolutamente interno. In pratica, chi racconta ricalca i modi di dire e di pensare dei protagonisti, dando vita ad uno stile semplice, che per certi versi mi ha ricordato addirittura Verga.
Insomma, Accabadora riesce perfettamente nell’incantesimo cui ambisce ogni romanzo: il lettore è dentro il meccanismo, si identifica, si immedesima.

Ieri pomeriggio ho chiuso il libro, e ci ho messo un po’ a recuperare la mia dimensione di moderna razionalità milanese. Sono uscita a fare una passeggiata sotto la pioggia, e mi sono accorta che mi è successa una cosa ridicola, che però mi capita solo con i buoni libri: i miei pensieri si muovevano al ritmo cantilenante dei periodi di Accabadora.

3 commenti:

  1. sono completamente d'accordo! un libro che ho amato molto e che è davvero in grado di raccontare un mondo delicato e misterioso.

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  2. Insomma Fuffi, mi pare che ultimamente in fatto di libri andiamo proprio d'accordo :)
    Be', in ogni caso, il tuo parere di sarda è sempre apprezzatissimo!

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